Raccolta di Scritti sulla Psicologia

Scritti pubblicati su quotidiani, riviste e webzine varie


Psicoanalisi
Tutta colpa tua
Carezze
Nudità
L'impero del male
L'Anima come Ometto

Per dirle basta
Si cambia
Ombre
A che gioco giochiamo
Rupofobia
I sogni non mentono
Senso della psicoanalisi

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PSICOANALISI

Vorrei sfatare un luogo comune che vuole la psicoanalisi adatta a persone con problemi psichici: la psicoanalisi è per tutti; per tutti quelli che hanno voglia e sentono di affrontare le fondamentali domande: "Chi sono?"- "Dove sto andando?". Ecco la psicoanalisi può dare risposte. Anch'io ho fatto analisi, si psicoanalisi: ho raccontato di me, dei miei sogni, delle mie fantasie ad una analista; ma non sono matto, non ho problemi psichici: sono una persona di quelle definite normali anche se poi si inizia a comprendere, insieme a se stessi, come è poco normale la normalità comunemente intesa. La psicoanalisi è un viaggio per la comprensione di sé attraverso lo smantellamento di tutte le sovrastrutture, che ci siamo costruiti a difesa del nostro essere nascondendoci e negandoci la libertà di essere così come siamo: i soggetti della nostra vita. Questo, lo so, genera la paura di guardarci a fondo con umiltà e di accettarci con i nostri limiti e ombre. Si ha paura di trovare qualcosa di sé cattivo, impresentabile, da aborrire, invece… Scopriamo in tutto la grandezza di un atto d'amore. Nelle nostre private idiosincrasie, nei nostri gesti più strani, nel modo di essere nel bene e nel male, c'è la nostra complessa individualità, irripetibilità; c'è il segno di una interiorità che chiede e dà amore: c'è la luce che disegna le ombre. Per questo consiglio la psicoanalisi a tutti invitando a guardare la propria vera identità. Molti surrogano le domande fondamentali chiedendo consigli, assicurazioni, consolazioni e soprattutto illusioni; per questo lavorano molto astrologhi, cartomanti, guaritori e venditori di nuove religioni. La psicoanalisi, invece proprio a noi, cosiddetti normali, ci può aiutare veramente.

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TUTTA COLPA TUA

Un augurio che è una proposta: non usare più la frase: "E' tutta colpa tua".
"E' tutta colpa tua", è uno dei meccanismi di relazione più diffusi. Scaricare la colpa sugli altri e commiserarsi è il modo per non prendersi responsabilità e quindi per non crescere. Così, non credendo alla nostra capacità e responsabilità di essere gli artefici di quello che ci succede, facciamo succedere, senza averne coscienza, sempre la stessa cosa: la famosa "coazione a ripetere" di Freud. Tutto quello che ci accade, di negativo (il più delle volte) e di positivo (raramente) è dovuto agli altri. Nel rapporto di coppia poi, l'altro: l'odiato- amato compagno, è responsabile di tutto.
"E' tutta colpa sua" si dice, però guai a perderlo questo nemico- amico. E' lui che ci rafforza la convinzione che è tutta colpa sua; se poi chiede continuamente "scusa", è fatta: si può passare tranquillamente (si fa per dire) la vita con lui nell'infelicità senza aspirare ad altro. Quello che serve in fondo è non sentirsi soli, ma a che prezzo! Ma sarà poi vero?
Il giornale, se notate bene, è il posto dove vanno a finire molte storie di "tutta colpa tua": sono quelle storie di coltello, botte, liti e vendette.
Alla fine tutto ci riporta al nostro essere piccoli. Piccoli e chiusi, fermi in un progetto angusto. Allora non ci rimane l'augurio (quello vero) di vastità. Ci vuole vastità per farsi più grandi del proprio dolore. Ci vuole vastità per sentire che siamo dilettanti dell'amore e che occorre "compassione" per potere "con" e non "contro" gli altri, costruire la nostra libertà e (in parte) felicità.

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CAREZZE

C'è una teoria delle "carezze" che ci rivela come sia vitale per ognuno di noi il bisogno di stimoli e riconoscimento che si può sintetizzare in un bisogno di conferma d'esistenza.
Questo bisogno psicologico è vitale quanto quelli fisiologici poiché l'uomo più che ogni essere vivente, ha bisogno che qualcuno gli dimostri che vive e glielo confermi. Vivere significa avere un continuo scambio di relazioni; ci ascoltiamo, ci amiamo, ci detestiamo, ci aiutiamo o malediciamo, tutto in un sottile gioco per confermarci che ci siamo e viviamo. Viviamo con il bisogno degli altri e dagli altri traiamo risposte e conferme alla nostra vita. Insomma senza carezze non si vive.
Questo bisogno è sentito da ognuno in maniera diversa: c'è chi si accontenta di un saluto, di una carezza, di un complimento come pure di uno schiaffo, un insulto o una maledizione ( sì, perché anche queste, in negativo, sono carezze, accorgimenti della nostra vita); chi insaziabile cerca mille amori, grida al mondo le sue voglie o pazzie e chi non basta scatenare guerre e diventare famosi in un qualsiasi campo dell'arte e no...In questa ultima categoria ci sono gli attori, i presentatori televisivi, le star e soprattutto i politici o quelli che possiamo definire i rompiscatole quotidiani.
Di questi ultimi, a mio avviso dovremmo riservare una particolare attenzione. La politica è da sempre l'arte per ottenere quanto più si vuole dagli altri; anzi la politica con la democrazia, non a caso, ha un'origine classica nel teatro greco. La nascita della politica era rappresentata dalla tragedia: il racconto era quasi sempre drammatico e il protagonista era l'eroe: l'eroe tragico, appunto. Ora mentre per l'attore è scontata la recita e la finzione per il politico è più difficile l'individuazione: fanno sul serio anche se i copioni sono buffi. Ora hanno capito che la televisione rappresenta uno straordinario strumento per ottenere le "carezze": garantisce da subito la conoscenza e dà la possibilità di stimolare le reazioni più diverse sparando cazzate e ragionamenti vari.
Così ci vengono propinati quotidianamente, per me, più che per le cose che hanno da dire per il loro grande bisogno di conferma d'esistenza: non gli bastano figli, mogli e amanti; non sono sufficienti lauti stipendi, immunità varie, leccapiedi, portaborse e guardaspalle, vogliono noi.
Certamente non sono tutti uguali e della politica come dei politici ne abbiamo bisogno, ma che abbiano coscienza del bisogno di conferma d'esistenza lo considero fondamentale.
Propongo per valutare la fame di conferme d'esistenza di ognuno facendo attenzione: a quanto promettono; ai proclami di salvezza; da quanto sono ossessionati dall'aspetto fisico; da come si intendono leader come "capo branco" e da chi ci vuole condurre, poichè vuole riconoscenza pensando di essere e volerci migliori. La storia dei leader molte volte si ripete: dopo una tumultuosa salita ecco il patatrac. Chi non riesce a legittimare questo bisogno, si chiude in sé oppure entra in competizione con gli altri e con sé stesso fino all'eccesso. Altre volte del bisogno di conferma d'esistenza ne siamo dipendenti e si fa tutto in funzione di un'approvazione, di un riconoscimento perdendo una parte di noi stessi per diventare come gli altri ci desiderano. Nasce da qui il conflitto e tutto l'amore che desideriamo , lo surroghiamo in ricerca di fama, successo, ricchezza.
Tutto questo per un attore, come sosteneva Szasz, può essere vivere una malattia mentale senza fare danni; per il politico invece è disastroso e le conseguenze le paghiamo tutti. Fermiamo questi politici prima.

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NUDITA'

Questa estate mi sono imbattuto, lungo la spiaggia di Son Bou a Minorca, in una colonia di nudisti. Il primo impatto è stato di imbarazzo ma poi ho avvertito un senso di libertà e accettazione che mi ha fatto pensare al percorso psicoanalitico, cioè al mettersi a nudo.
Si, perché quei corpi di tutte le età, erano corpi imperfetti, non erano i corpi nudi che ora ammiriamo nei calendari e viziati da un ricercato estetismo.
Erano corpi che si muovevano in una dimensione naturale, si mostravano così come erano: con flacidità, pieghe, striature o abbondanze, linearità ed elasticità.
Erano così, come erano, ed io vedevo in ciò del coraggio.
Mettere a nudo il corpo è forse una cosa non divisibile dal mettere a nudo anche lo spirito. In fondo per essere felici bisogna sapersi spogliare e l'amore è come un vestito: bisogna essere nudi per indossarlo.
Tutto alla faccia dei calendari o perchè no? Grazie anche ai calendari.

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PER DIRLE BASTA

Qualche volta ho pensato che bastavano ancora due o tre cose e poi che sì, la morte poteva pure portarmi via. Segnale di vecchiaia? No; pensavo questo con la consapevolezza di un limite, di preparazione all'evento che più di ogni altro condiziona l'esistenza e per questo cerchiamo di rimuovere. C'era anche una sorta di appagamento per quello che avevo fatto e soprattutto per quello che sentivo ed ero diventato. Intanto la morte prima o poi arriva a fermare le tue cose e a concludere il cammino. Allora tanto vale prepararsi. E' bello e importante per me pensare che ci sia un momento nel quale possa dire: "sono pronto". Ma poi come si fa a dirlo? Ad invocare la morte?
Ora mi viene da chiedere subito un'altra vita per fare altre cose che non ho fatto; per conoscere tante cose che non so; ma soprattutto per continuare l'avventura dell'amore e dell'incontro. La vita è troppo bella e di sicuro non c'è mai il momento per dirle basta.

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SI CAMBIA

Ma poi si cambia, eccome si cambia. Proprio per diventare quello che si è, ossia si potrebbe e si dovrebbe essere, si cambia. Si cambia con le batoste della vita, con le "facciate", le sconfitte, le delusioni. Si cambia per amore, per dolore; si cambia perché si deve.
Poi noi non siano, quasi sempre, quello che pensiamo di essere o meglio quello che cerchiamo di presentare agli altri. Noi siamo un caos e insieme - con un curioso anagramma- un caso. Sì, ci capita di accadere come la pioggia, il vento, la neve o la tempesta; ci capita di accadere come il risultato di altre cose, spesso di cose esterne. Ma tutto dipende da tutto: tutte le cose sono collegate e girano, si muovono e noi ci "comportiamo" come era "già stato fatto"; ma basta poi anche un solo piccolo cambiamento, un solo nuovo piccolo fatto e tutto cambia...Dipende anche da noi.
Ma non c'è niente di magico, niente di impossibile. C'è una persona con cui non ridete mai? Ebbene iniziate a ridere con lei. C'è un gesto che non avete mai fatto? Comprarsi ad esempio un bel mazzo di rose? Regalarsi un concerto o un posto a teatro? Fatelo. Non è tutto automatico, ma certi atti innestano un pensiero diverso, a volte si scatena una reazione a catena che ci dà una scossa; ci dice che si può, si può cambiare. Poi, con la persona che amiamo e, molto spesso riservandogli la parte peggiore di noi, pensiamo di non mentirle, diciamole quello che proviamo davvero, diciamole: ti amo. Cambiamo davvero; noi e insieme gli altri. Già perché quando cambiamo noi, cambiamo il mondo.

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OMBRE

Riusciamo a vedere le ombre? Jung definiva "Ombre", le parti nascoste, non accettate della nostra personalità, che ci imbarazzano e pensiamo ci facciano discriminare dagli altri. L'ombra è così il nostro particolare inconscio, la parte sconosciuta e speculare di quello che di solito vogliamo rappresentare di noi agli altri. Viviamo la maschera. Eppure l'ombra ci rende uomini tra gli uomini e umani; mentre le buone qualità, i pregi ci pongono al di sopra degli altri. A tale proposito quelli che non vivono l'ombra, sono i perfetti, quelli che infliggono a chi sta intorno a loro un irritante senso di inferiorità: si comportano come esseri superiori e per questa ragione quando si scoprono in fallo, fanno provare sollievo e perfino rallegramenti quando gli capita un accidente.
Ad altre persone capita, invece, che vivano la propria ombra in modo esagerato, così rivestono il ruolo di "redentori negativi", ci liberano dall'affrontare la nostra propria ombra. A volte quando esprimiamo dei giudizi drastici: "è una puttana...", " è un delinquente...", diciamo più di noi che di quello che vogliamo indicare. E' l'altro il cattivo, quello che commette il delitto; noi l'abbiamo soltanto desiderato. Succede poi che qualcuno si addossi anche l'ombra degli altri; ecco allora nascere i "barbablù", i "mengele" e tutti gli altri criminali della storia.
Però non possiamo vivere senza un rapporto con la nostra ombra; un rapporto che ci faccia pure continuare ad imprecare con un "Porca Eva" o "Porco cane", ma non dimenticare quanto ne siamo succubi o negatori. Riusciamo a saperlo? Con un pò di introspezione chissà quante ombre uscirebbero e allora chissà se il mondo non diventerebbe per questo più umano. Forse più giusto.

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A CHE GIOCO GIOCHIAMO?

Nello studio dell'Analisi Transazionale, c'è un sistema per individuare una dinamica relazionale definita "gioco". Ogni giocatore assume inconsciamente di volta in volta il ruolo di Persecutore, Salvatore e Vittima; poi può saltare da un ruolo all'altro a secondo l'andamento del gioco. Di solito però uno interpreta il ruolo preferito e passa la maggior parte del suo tempo ad esercitarlo. Voi siete Vittime, Persecutori o Salvatori? Un aiuto: il Persecutore di solito è una persona seriosissima con un alto senso del dovere che vede tutto negativo; lui si ritiene sempre nel giusto e gli altri sono quasi sempre inadatti, non bravi, non giusti. Il Salvatore è molto premuroso, in pò chioccia; ama molto come un dovere e trova negli altri sempre delle mancanze a cui sopperire. La Vittima è sempre complementare agli altri due ruoli: è un bambino sempre in difficoltà e trova sempre un Persecutore o un Salvatore secondo il momento esistenziale. Gli altri sono sempre più bravi di lui e quindi cerca chi può aiutarlo. Questi giochi si svolgono sia a livello sociale che psicologico. Chi gioca in genee instaura relazioni simbiotiche ovvero relazioni figlio - mamma; bambino- genitore. Il dramma è che questo meccanismo di relazione si ripropone sempre inconsciamente: un figlio cercherà sempre una mamma ed un bambino un genitore.
Uno dei giochi preferiti è : Povero Me!. Trovata una Vittima, il Salvatore risponderà: "Sono felice di aiutarti, come saranno felici di avermi conosciuto"; Il Persecutore: "Guarda in che situazione mi hai messo, ti ho beccato, brutto pasticcione".
Ma perché si gioca? Tutti i giochi hanno un tornaconto, una finalità importante ed esistenziale: ricevere carezze, meglio positive, ma non importa a certuni più di tanto; vanno bene anche quelle negative, poiché si sà la cosa peggiore è l'indifferenza: è non essere visti, guardati, percepiti, ascoltati , sentiti... Insomma ci siamo?
Pensateci un pò, quanti stanno giocando in questo momento?

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RUPOFOBIA

Tanto più aspiriamo come società ad un mondo pulito, tanto più paradossalmente cresce la "rupofobia". Dal greco "rupo", ovvero sudiciume, rupofobia significa paura dello sporco. Un termine non conosciuto e poco usato a dispetto di sintomo che sempre più colpisce le persone. Quanti sono quelli che tutti i giorni sono a combattere i loro nemici: polveri, acari, capelli, peli, microbi, batteri? Tanti; tanti e sempre di più, anche spinti dalla pubblicità pronta a venderci le più svariate armi da combattimento: stracci mangiapolveri, spray autopulenti, detersivi con Mastro lindo o Mr Bianco.
Certo che il vero rupofobo, spesso è anche un compulsivo ossessivo: si lava continuamente le mani, vede microbi malefici dappertutto e guai agli odori, sente il lezzo ovunque. Questo mentre cresce l'inquinamento, le allergie, le malattie della pelle...Se leggiamo tutto questo, sotto l'aspetto psicoanalitico, ci rivela come non riusciamo più a reggere le mancanze, le nostre "ombre", ovvero le parti nascoste di noi, non accettate, che nel rito della pulizia cerchiamo di sbarazzarci. Forse per questo c'è in giro a volte, molta negatività e cattiveria.
Eppure noi siamo anche la "cacca", la "pipì"; siamo un corpo che suda e puzza. Se non facciamo i conti con questo corpo, questa materia, non riusciremo a uscirne. Anche se nel linguaggio siamo sempre più liberi di chiamare le cose come stanno, sentendo perfino in TV nominare la "diarrea", rifiutiamo la convivenza con lo "sporco", le "ombre" che guarda caso sono sempre degli altri.
Eppure imparare a convivere con questo "sporco", ci aiuterebbe ad amare in modo diverso e più autentico: un amore che vuol dire anche affondare nella carne e nelle budella dell'altro.
Questo vuol dire contaminarsi e affrontare la vita per quello che è. In definitiva essere pronti ad amare sapendo che proprio per questo si può essere traditi.

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L'IMPERO DEL MALE

L'impero del Male con la personificazione dell'avversario è una semplificazione che certo non aiuta, anzi complica, la comprensione della realtà. Osama bin Laden e Saddam Hussein, oggi come lo poteva essere ieri Hitler, sono gli interpreti di un male che è specularmente l'altra faccia di una stessa logica e filosofia di potenza. Ci può venire in aiuto ancora una volta l'opera di Hannah Arendt, con "La banalità del male", dove affronta il personaggio Heichman durante il processo a Gerusalemme. Heichman, un impiegato modello - mandò, senza rimorsi, milioni di persone alle camere a gas e quindi nei forni crematori- fece sorgere questo interrogativo: come possono compiersi le atrocità, i crimini più crudeli senza il concorso "normale" di buoni cittadini, brave persone dai sentimenti uguali a tutti noi?
La consapevolezza di essere ognuno un potenziale assassino, un probabile criminale, un eventuale terrorista ci può aiuta a comprendere e forse anche a superare questa condizione che ha nell'animalità una radice, ma anche il presupposto filologico di una trascendenza dell'anima. Noi siamo individualmente i responsabili sempre delle nostre azioni e insieme responsabili della storia che ci succede. Allora chi sono i terroristi? Chi sono i nemici? Chi sono i cavalieri del Male? L'identificazione e la catalogazione, sono due meccanismi del nostro pensare che condiziona sempre il nostro giudizio; sono elementi di controllo ed esemplificazione della realtà che genera mostri e paure incontrollate. Si può uscire da questi schemi mentali? A livello collettivo pare una cosa ardua: le guerre sono la conferma che poco se non nulla cambia nei percorsi psicologici umani.
Il Male in sostanza è sempre dell'altro, dalla nostra parte troviamo un Bush, un Berlusconi o un Blair pronti ad interpretare il ruolo dei difensori della civiltà, la nostra, di tutti. Ragionamenti speculari all'avversario, al nemico, che poi collettivamente si sa è formato da bravi bambini, bravi lavoratori, buone mamme e soprattutto da difensori di alti valori di Patrie, Bandiere e Civiltà. Ma c'è speranza che qualcosa cambi? C'è, se ci poniamo un pensiero semplice ed una sola domanda: chi siamo noi?

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I SOGNI NON MENTONO

L'impresa di conoscere se stessi è conoscere la verità che normalmente ci neghiamo, complichiamo, continuando a dire bugie prima di tutto a noi.
Ma i sogni no; i sogni ci riportano alla realtà più vera: i sogni non mentono.
C'è un sogno ricorrente che penso in molti abbiamo fatto: è quello di essere coinvolti in una strage, in una carneficina e seppure armati, la pistola non spara e anche se muoiono tutti noi sopravviviamo. Un incubo; una angoscia tremenda ci attanaglia. Cosa vorrà dire questo sogno? Molti penseranno ad una cattiva digestione, a qualcosa rimasto sullo stomaco, a qualcosa di fisico; invece lo si può interpretare, con la cultura psicoanalitica, diversamente: chi fa questo sogno non vuole abbandonare il proprio io. Il sogno ci rivela che non riusciamo a farci uccidere. Intorno a noi tutti erano morti, non erano più le persone che avevamo conosciuto. Solo noi resistiamo: non uccidiamo e non vogliamo farci uccidere. Quella morte avrebbe significato il nuovo: una nuova vita e invece resistiamo; non vogliamo lasciare la nostra posizione esistenziale. Il sogno quindi ci costringe a patire, ci richiama ad una morte che temiamo e che invece sarebbe necessaria per rinascere, per cambiare.
Allora la potenza del sogno e della nostra vera essenza, ci richiama a cambiare facendo morire quello che pensiamo sia nostro. Il sogno che ho raccontato è di tanti, perché siamo in tanti prigionieri, lo siamo di molti attaccamenti; lo siamo delle cose più stupide e perfino delle cose che più ci fanno soffrire. Ma la nostra parte più vera, la coscienza, ci parla e ci vuole vivi: per questo c'è bisogno che moriamo; c'è bisogno che rinunciamo a tutti gli aspetti che non sono necessari alla nostra crescita, alla nostra vita. Il sogno è poi traumatico perché ci deve svegliare dall'ipnosi delle nostre identificazioni, dal nostro falso io. Se riusciremo a morire nel sogno e in questa falsa vita, allora ci conosceremo e sarà una grande scoperta.

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L'ANIMA COME OMETTO

Da quando il selvaggio ha dato senso alla natura vivente che si muove gli ha posto dentro un piccolo animale; l'animale dentro l'animale, l'ometto dentro l'uomo: l'anima.
L'anima come ometto e Dio come uomo. Da quel momento la somiglianza tra l'anima e l'uomo è così stretta che vi sono anime grasse e anime magre come i corpi. L'anima diventa il carattere, diventa quello che è più nostro e vero. L'anima così ci costringe a portare sempre in avanti la conoscenza e la consapevolezza. L'anima non invecchia o meglio pur seguendo il corpo e sentendo la stanchezza, ci spinge a portare a compimento quello che di noi rimane inespresso: ci spinge ad essere quello che siamo. Quest'anima si dice ci sopravvive, quando moriamo abbandona il nostro corpo e si trasferisce chissà dove: all'inferno, in purgatorio o in paradiso? Non si sà ma certo l'anima continua a vivere e seppur con noi ha avuto un inizio, pare non abbia fine.
Ma forse in verità, l'anima non inizia con noi, ci viene trasmessa dagli innumerevoli antenati che ci hanno preceduto; ci è stata solo prestata, è la testimonianza di un pensiero che decide che ne sarà della terra e dell'esistenza. Facciamola vivere quest'anima, vogliamogli bene e quest'ometto, la parte più preziosa di noi che parlerà anche quando il nostro corpo non ci sarà più. Ascoltiamolo già ora questo ometto, parla con noi dicendoci quello che è giusto fare, ci aiuta a non sbagliare.
Dimenticavo di dire che alla fine solo il bene si tramanda; la parte cattiva è del momento, è il contingente, la smania, l'ignoranza, l'inconsapevolezza di essere di più del proprio ometto.

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SENSO DELLA PSICOANALISI

Mi piace ricordare quanto sostiene J. Hillman sulla psicoanalisi: essa è diventata, costituzionalmente, il sentimento del nostro tempo e ricopre il senso del "fare anima". Le malattie dell'anima, di cui chiediamo la diagnosi alla psicoanalisi, ci rivelano la sua stessa essenza e bisogni. In quello che definiamo "psicopatologia" troviamo l'irrefutabile prova dell'individualità; così scopriamo quello che ci parla nei sogni, nelle passioni, nel dolore, quello che ci travalica e infine costituisce la nostra esistenza.
Così si affina quel particolare sentire che, se riesce a superare le opinioni, gli artifici, ci aiuta a non sbagliare le scelte e trovare la risposta ai nostri problemi naturalmente. Con il lavoro psicoanalitico impariamo ad ascoltarci e a comprenderci; con ciò scopriamo che la nostra anima ha migliaia di anni ed ha da raccontare attraverso i miti la nostra vera storia: una storia particolare che è in fondo la storia di tutti.
Ma la psicoanalisi non è terapia, non è cura o conoscenza per realizzare quello cui aspira l'io; può essere semplicemente una manifestazione d'amore dell'anima o almeno una rivelazione. In fondo, cosa si pensa di curare? Quello che ci fa stare male, quelle nostre stranezze, pasticci e fantasie che spingono all'analizzarci in prima richiesta da soli, sono la difesa alle ragioni dell'io che ci negano d'essere naturali, di essere ciò che siamo.
Voi cosa ne pensate del lavoro analitico?